Bello e (im)possibile

Comprensibilmente, ci ha regalato un piacere oltre ogni misura leggere un po’ ovunque in questi giorni che la Bellezza Italiana non soltanto vale 240 miliardi di cui 39 prodotti dal turismo, ma che se ci applicassimo con maggiore profitto il suo valore potrebbe crescere di altri 130. Ci è piaciuto tanto perché ancora una volta i numeri ci hanno assegnato di diritto un posto da primato, insieme a quello, qua e là confutato ma in ogni caso verosimile, secondo cui nel nostro Stivale si concentrerebbe il 70% del patrimonio artistico mondiale e quello invece inconfutabile del  maggior numero dei siti Unesco posseduti: al momento 51, contro i 50 cinesi, i 45 spagnoli ma soprattutto i 42 francesi, che catapultando tout court i cugini d’oltralpe fuori dal podio contribuiscono non poco all’overdose di euforia.

Peccato che a smorzare il collettivo gaudio giunga da più parti l’invito alla cautela. Le opportunità di crescita date da tanta Bellezza non possono, infatti, mettere a rischio la Bellezza stessa. Dalla Liguria la presidenza Federalberghi segnala che se l’invasione turistica ha fatto della regione “un vaso di cristallo, le Cinque Terre sono ormai un fragilissimo vaso di Murano”.  E il rimando alla località lagunare non fa che affondare il dito in una piaga annosa, quella di Venezia, il cui disperato grido d’allarme si unisce a quello di Firenze, Roma e di altre località costantemente assaltate dai turisti.  In un articolo riportato sul suo blog ufficiale, il Sottosegretario ai Beni Culturali e al Turismo Dorina Bianchi, suggerisce alcuni possibili rimedi: app che indichino percorsi alternativi dirottando i visitatori su località meno note ma altrettanto degne di attenzione; no al numero chiuso ma sì ai dispositivi contapersone per regolare i flussi nelle aree di criticità.

Certo, trovare soluzioni unanimemente condivise non è semplice, dibattuti tra quanto detterebbe il comune buonsenso e le bacchettate degli economisti che impietosamente ricordano come gli Stati Uniti, con la metà dei siti Unesco rispetto all’Italia, abbiano un ritorno commerciale pari a 16 volte il nostro, o come in Francia e Regno Unito la Bellezza frutti da 4 a 7 volte di più.

Probabilmente lo snodo sta proprio qui: scegliere un volta per tutte con chi schierarsi. Se con chi pensa che dare valore alla Bellezza significhi spremerla fino all’esaurimento, come una delle tante fonti non rinnovabili del pianeta e con tutte le tragiche conseguenze già riscontrabili in altri ambiti, oppure con chi chiede di difenderla a spada tratta. Come peraltro il nostro dna imporrebbe. Michele Ainis* ci rammenta infatti che “c’è un elemento che distingue la cultura italiana dalle altre culture nazionali (…). Ed è l’educazione al bello, la capacità di plasmarlo e ricrearlo in nuove fogge, nel passaggio delle generazioni”. Secondo il costituzionalista e saggista sarebbe infatti “questo il genio degli italiani”.

Dovremmo forse solo trovare il coraggio di affermarlo con piena convinzione, anche (perché no?) in nome del profitto, accogliendo in questo caso l’invito di Oscar Farinetti, di cui certamente non si può negare la capacità di tradurre in moneta il Bello e il Buono dell’Italia.  

Nel presentare al Lingotto il suo ultimo libro, il patron di Eataly ha ricordato che “nascere in un Paese bello come il nostro non è un merito personale, ma un puro colpo di fortuna”.  E chi ha avuto questa fortuna dovrebbe a suo avviso “dedicare almeno una parte della propria vita a farselo perdonare, garantendo pari privilegio alle generazioni future”.

Twitter @paolaviron

* La Costituzione e la Bellezza, ed. La Nave di Teseo, scritto con Vittorio Sgarbi

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