Quando smart non vuol dire intelligente. Riflessioni d’estate sul nomadismo digitale

Leggendo qua e là le notizie estive che piovono dal mondo dello smartworking, si ha ancora una volta la conferma che il turismo sia ben più di un banale accrocco di attività di svago espletabili in bolle spazio-temporali che nulla hanno da spartire con il contesto umano e sociale circostante.

Qualunque nuova trovata o – per dirla più elegantemente – “formula” che metta in movimento un cospicuo numero di persone non può infatti non generare conseguenze, talvolta anche di una certa complessità. Lo smartworking abbinato al nomadismo digitale pare rientri a pieno titolo nella citata categoria. Nell’ultimo mese ne hanno trattato, in multiformi aspetti, varie testate giornalistiche italiane ed estere. Ne riporto alcune. Il New York Times del 3 agosto ha riempito un paginone riferendo di come in alcune destinazioni turistiche statunitensi l’incremento del costo degli affitti delle abitazioni, generato dall’impennata della domanda di spazi per lo smartworking, renda oggi impossibile la permanenza in loco del personale addetto ai servizi turistici stessi. Qualcuno, con prole al seguito, si vede costretto per non perdere il posto di lavoro a ripiegare su container e garage senza servizi igienici. Qualcun altro è obbligato a cercare impiego altrove. Per identiche ragioni, medici e insegnanti si stanno allontanando dalle Hawaii e il fenomeno, riportava il Venerdì di Repubblica del 5 agosto, investirebbe anche altre destinazioni del pianeta “molto ambite per le vacanze – da Cape Cod alla Cornovaglia fino alla Costa Azzurra”.

Dunque, il nomadismo digitale che per alcune mete si prospettava come una possibile – e tutto sommato semplice – via per equilibrare i flussi stagionali ed elevare i tassi di riempimento di ville e appartamenti, potrebbe in realtà rivelarsi sul lungo periodo una soluzione imperfetta, non socialmente sostenibile e dunque totalmente disallineata rispetto agli obiettivi di crescita invocati da più organismi del settore, ivi inclusa l’Agenda 2030 dell’Organizzazione mondale del Turismo.

Come risolvere dunque la faccenda? Una delle possibili strade perseguibili potrebbe essere la formula Condhotel, nata a inizio millennio in area americana, regolarizzata in Italia nella primavera del 2018 e partita un po’ ovunque in sordina anche a causa del rallentamento imposto dalla pandemia. È ancora il Venerdì di Repubblica a parlarne, il 12 agosto, spiegando come la formula stia “prendendo piede anche in Italia”. Comprare un appartamento in un hotel e affittarlo quando non lo si usa – come impone la normativa in materia – potrebbe infatti rivelarsi un buon compromesso per soddisfare la domanda di spazi per lo smartworking in luoghi turisticamente attrattivi, garantendo al contempo una giusta dignità al settore dell’hospitality, tenendo sotto controllo il costo degli affitti delle abitazioni destinate ai lavoratori del comparto e di altri fondamentali settori come quelli della salute e dell’istruzione, e intervenendo virtuosamente sull’eterna questione della stagionalità dei flussi.

Il tutto ovviamente in maniera perfettibile ed estendibile con i dovuti adattamenti ad altre fasce di utenza purché nell’ottica di raggiungere l’indispensabile bilanciamento tra le necessità dei nuovi turisti-lavoratori e quelle dei residenti. In direzione, insomma, di quel “turismo osmotico” caldeggiato dall’antropologo Duccio Canestrini in un libro (*) che, rimarcando la necessità sempre più impellente di lavorare per un “nuovo turismo umanitario e solidale”, prova a indicare come correggere per tempo le storture di un ingranaggio altrimenti destinato ad alimentare le già esistenti frizioni tra cittadini permanenti e cittadini temporanei.

*“Non sparate sul turista”, Bollati Boringhieri, cap. 7

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