Lavoro e turismo, i miti da sfatare per chi assume i Millennial

C’è un’intera letteratura fiorita sulla percezione che i Millennial, cioè i giovani che oggi hanno meno di 30 anni, siano la prima generazione nativa digitale e pertanto diversa da tutte le altre, soprattutto in tema di motivazione professionale, aspettative lavorative, comportamento in azienda. Il luogo comune vuole i Millennial dotati di spirito di squadra ma restii ad accettare le strutture gerarchiche, poco sensibili allo stipendio perché più motivati dalla realizzazione personale, decisi a differenziarsi dalla generazioni precedenti nell’approccio professionale e, in generale, abbastanza difficili da inquadrare. Per le aziende una generazione da gestire diversamente dalle altre, aggiungendo complessità alla complesità.

Non è esattamente così, sostiene uno studio condotto da Ipsos per conto di Edenred in 15 paesi: in ambito lavorativo, si legge su Event Report, i Millennial sono molto più simili ai loro colleghi più anziani di quanto si creda, soprattutto in Italia. Fatta salva la maggiore motivazione (caratteristica della giovane età a prescindere dalla “nascita” digitale) condividono con i colleghi il giudizio circa gli attributi ideali di un’azienda, e ciò significa che per l’azienda il problema non è tanto gestirli in modo indipendente dagli altri, quanto piuttosto ripensare le sfide della leadership in un ambiente sempre più digitalizzato, orizzontale e orientato al multitasking.

In generale i Millennial sono più motivati professionalmente e più fiduciosi di sviluppare una carriera all’interno dell’azienda in cui lavorano rispetto ai colleghi più anziani, ma questo – dice lo studio – era vero anche per i giovani di dieci anni fa. Le aspettative verso il management invece sono molto simili fra le generazioni: i dipendenti richiedono onestà, correttezza, capacità di rispettare gli impegni presi, Millennial e non nelle stesse percentuali. Come per tutti i dipendenti, anche per i Millennial sono prioritari il riconoscimento dell’impegno (meritocrazia) e le opportunità di sviluppo individuale e professionale, mentre pochi hanno qualcosa da ridire sull’organizzazione gerarchica del lavoro e dell’azienda.

Un altro luogo comune che viene smontato è quello secondo cui i Millennial attribuiscono particolare importanza alla vita privata: l’equilibrio tra vita personale e vita professionale è sì prioritario per il 28 per cento degli under 30, ma lo è nella stessa misura per gli over 30. L’unica differenza è che i Millennial, in tema di equilibrio fra vita e lavoro, tendono a dare maggiore enfasi alle sfide poste dalla tecnologia in tema di connessione (e quindi reperibilità) permanente.

In Italia, in particolare, Millennial e non mostrano lo stesso livello di malcontento per la propria situazione professionale, con poco più di un terzo degli intervistati a ritenere che l’azienda per cui lavora non sia in grado di soddisfare ambizioni e desideri professionali. I Millennial italiani sono poi fra quelli che esprimono i livelli più bassi di benessere lavorativo: solo il 25 per cento (contro il 35 per cento della media globale) si sente rispettato dai propri manager e solo il 21 per cento (contro il 31 per cento media globale) pensa i propri superiori siano attenti alla formazione dei giovani in azienda. In Italia, infine, meno del 20 per cento dei Millennial ritiene di lavorare in un ambiente stimolante (il 26 per cento negli altri paesi) e soltanto il 15 per cento è soddisfatto dell’equilibrio tra lavoro e vita personale.

E il 79 per cento degli under 30 italiani non ha fiducia nel proprio futuro in azienda: nel resto degli altri paesi il senso di insicurezza e precarietà del posto di lavoro si ferma al 68 per cento.

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