Trilogia Cina - Parte prima/Euforia da deserto

Amo molto la Cina, un Paese di un fascino pazzesco che riesce sempre a sorprendermi.  Come l'anno scorso quando sono tornata nel Gansu, la provincia settentrionale ai confini con il deserto del Gobi dove passa la mitica Via della Seta, e ho scoperto il Yadan National Geological Park: un parco nuovo di zecca, a circa un'ora e mezzo in macchina da Dunhuang, che dodici mesi prima non c'era.

Ho amato subito il Yadan, perché mi incantano i deserti. Amo le loro distese di sabbia senza soluzione di continuità, quel suono assordante del silenzio, le dune che cambiano forma scolpite dai venti, e le orme che scompaiono come spazzate via da una scopa magica.  

E poi nei deserti mi prende una strana euforia e mi viene voglia di correre, di saltare, di cantare e di ballare, liberandomi dalle costrizioni - vere o immaginate - di tutti i giorni.

Nel Yadan ho trovato un deserto aspro e duro, una landa sterminata dove l'erosione dei millenni ha scolpito rocce e massi di dimensioni e forme tali da lasciare senza fiato.

Silenziose sentinelle pietrificate dalle forme di gigantesche navi fantasma, animali preistorici e cattedrali grottesche in un paesaggio lunare che si confondeva con l'orizzonte in un miraggio cangiante.

E ho scoperto che l'euforia del deserto è un mal comune, perché anche i miei compagni di viaggio ne sono stati contagiati, saltellando come canguri, cantando come Pavarotti, e correndo come pazzi. E per un caro amico giornalista il deserto di Yadan altro non era che uno sterminato oceano, e si è buttato sopra un piccolo pendio, nuotando a bracciate disperate come per salvarsi dalle onde impetuose del mare.  

Ah, quasi dimenticavo, nei deserti mi viene anche tanta voglia di ridere. E quel giorno nello Yadan ci siamo strapazzati dalle risate. Momenti di pura e semplice felicità regalati dalla natura.

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