Il commento del direttore
Remo Vangelista
È una questione che si trascina da anni. E che, nei momenti di calma, viene completamente accantonata, salvo poi tornare alla ribalta quando ce ne sarebbe più bisogno.
La normativa sullo 'sconsiglio' del Ministero degli esteri nasce con il Codice del Turismo, risalente ormai a oltre dodici anni fa (maggio 2011, per la precisione). E in oltre due lustri non ha mai visto sostanziali cambiamenti dal punto di vista del meccanismo che fa 'scattare' le riprotezioni.
Perché l'unico elemento che fa scattare le tutele per i consumatori è uno solo: "I giudici ritengono rilevante l'uso della parola 'sconsiglio' o del verbo 'sconsigliare'", come precisa a TTG Italia l'avvocato Gianluca Rossoni, esperto in legislazione turistica. E a queste regole devono attenersi anche i player esteri, come le compagnie aeree, dal momento che "conta il luogo di inizio dell'esecuzione del viaggio", precisa ancora l'avvocato.
Le conseguenze
L'uso di un termine rispetto a un altro è dettaglio in fondo piuttosto piccolo, dal quale però dipende una notevole mole di denaro: quello dei consumatori, che possono o meno cancellare il viaggio senza penali, e quello delle aziende, che devono o meno rimborsare integralmente gli importi già versati.
La questione, come detto, si trascina avanti da oltre un decennio. E non si può fare a meno di notare come altri Paesi abbiamo adottato meccanismi più 'robusti', come quello del warning, immediatamente comprensibili anche al consumatore meno smaliziato.
L'emissione o meno del 'warning' su un Paese non si presta a interpretazioni e non può essere oggetto di esegesi. Cosa che invece rischia di accadere in Italia, dove la formulazione di una frase in un modo piuttosto che in un altro può far ballare centinaia di migliaia di euro. Una massa di denaro che forse richiederebbe un meccanismo meno aleatorio rispetto all'attuale 'caccia al sinonimo'.