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Roberto Gentile,
Editorialista turistico, esperto di retail, community-manager, head-hunter

Perché ci vorranno mesi (o anni) per tornare a viaggiare come prima

07/07/2020
11:42
 

Ho rimesso piede in un hotel dopo 5 mesi: una sola notte, feriale, in un tre stelle nell’entroterra laziale. Ecco la mia esperienza. Mi avvicino alla reception, presidiata da impiegata protetta da mascherina e parete in plexiglas, e mi fermo a più di un metro di distanza. Ho la mascherina appesa all’orecchio (fa caldo, tra me e la receptionist ci sono distanza e barriere, magari posso farne a meno...), ma la ragazza mi guarda storto e la mascherina va indossata. Prenotazione, documenti, chiave della camera: parliamo entrambi come fossimo dentro uno scafandro, lei non capisce se ho detto “elle” o “emme”, io se la camera è la 66 o la 76. Sorrisi, ovviamente, dietro lo schermo non si vedono. Se ci sono.

La mattina dopo, la mia prima colazione post-pandemia. Ospiti rigorosamente in fila, tutti diligentemente con mascherina e a distanza, inganniamo l’attesa lavandoci le mani (sarà la quarta volta in mezz’ora) col disinfettante all’aroma “Pronto soccorso”. Siamo attesi da due cameriere al di là di un bancone trasparente, che contiene il nostro “no self-service breakfast”. Il bancone è proprio quello della gastronomia del supermercato: prima il salato, poi il dolce, affettati e brioche, yoghurt e succhi di frutta. Solo che devi ordinarli, proprio come al supermercato: “Prendo un succo, un po’ di prosciutto, ecco, magari una fetta di crostata e un cornetto alla crema, grazie”. Quando la cameriera ti serve il prosciutto, mi stupisco che non dica: “Che faccio, dotto’, lascio?”. E poi io sono goloso di dolci e avrei preso anche la torta al cioccolato, ma avevo già crostata e cornetto, mi pareva troppo... La mia colazione è disposta su un vassoio di plastica, collocata su piatti di plastica, accompagnata da posate di plastica; la ciofeca, ops, il caffè della macchinetta è in un bicchiere di plastica. Cerco un tavolo, sopra non c’è niente: né bicchieri, né tovaglioli, né zucchero, né latte. Mi guardo intorno, mi tolgo la mascherina, mi sento quasi in colpa... Mangio, guardo gli altri avventori, mi torna alla mente un pranzo che consumai a Berlino Est, prima della caduta del Muro. Atmosfera e colori erano simili.

No, così non va. Finché le mascherine, la distanza, la plastica (ma Greta che fine ha fatto?!), il monouso e i cartelli “Usa la mascherina! Rispetta la distanza! Lavati le mani!” saranno elementi dominanti di quella che solo fino a febbraio chiamavamo “esperienza in hotel”, io in hotel non ci tornerò. E come me tanti altri, che se ne staranno a casa, a bere il caffè in una tazzina di ceramica e a pulirsi la faccia con un tovagliolo di cotone.

Dopo l’11 settembre abbiamo imparato a toglierci la cintura, svuotare le tasche di monete, abbandonare con trepidazione il telefonino, al momento dei controlli in aeroporto. É fastidioso, ci siamo abituati, appena superata la barriera ce ne dimentichiamo. Ma questo no, questo ha un impatto 100 volte più devastante: in stazione e in treno, in aeroporto e in aereo, in hotel e al ristorante, nulla sarà più come prima. Questo in Italia, e all’estero? Finché ci tocca la quarantena tornando dalla Tunisia (una follia, come sottolinea giustamente Pier Ezhaya) oppure l’agognato viaggio a New York va rimandato, non di un mese, ma di un anno, questo non è viaggiare. E chissà quando tornerà tutto come prima.


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